UN CA**O EBREO, di katharina Volckmer
‘Urticante’
Venire in contatto con questo monologo, irrita e provoca prurito … però piace ‘grattare’ la parte irritata e quindi gratti (leggi)!
Non faccio fatica a credere alla grande risonanza già avuta.
Un’opera prima, una giovanissima scrittrice tedesca, che scrive in inglese e vive a Londra, una traduzione divina e al vetriolo, un titolo provocatorio discutibilissimo, ok, ma azzeccatissimo, un testo pregno ma compatto, 110 pagine trascinanti e piene di: storia (quel passato che è presente sempre), crisi di identità, paure, sesso spregiudicato, delicatezza e volgarità assieme, ribellione e voglia di riscatto, tanta intelligenza!
Di un libro cerco sempre una frase, qualche riga che più delle altre sento possano riassumerlo (per me non in assoluto). In questo caso non è stato facile; questo libro è un fiume in piena, un ininterrotto flusso di coscienza in bilico tra ironia, audacia e saggezza, una logorroica descrizione di sé, di ciò che si è stati, si diventa … ad ogni modo “l’unico vero conforto che possiamo trovare nella vita è essere liberi dalle nostre bugie”. Sbam!
Siamo a Londra, nello studio del Dott. Seligman, medico ebreo, del quale a mala pena si intravede la nuca e il capo con pochi capelli. Nella stanza troneggiano sette cornici che contengono ‘foto dei suoi figli e nipoti’ ma anche, forse ‘dei suoi sette peccati preferiti’. Quasi come una voce fuori campo inizia la confessione fiume della protagonista, una giovane donna tedesca. Una relazione con K, il prima e dopo K, l’infanzia e il lavoro perso, un’eredità notevole ricevuta dal nonno capostazione di una piccola città della Slezia.
Un monologo irrefrenabile e il tono si fa subito irriverente e perverso “So che potrebbe non essere il momento migliore per sollevare l’argomento, dott. Seligman, ma mi è appena venuto in mente che una volta ho sognato di essere Hitler” in realtà ‘sono soltanto stanca’ ‘io non sono i miei pensieri’ e ‘ci sono percorsi diversi di consapevolezza e modi diversi di reagire alla nostra consapevolezza’ e ‘non capisco perché ogni cosa che riguardi gli uomini debba sempre essere così sovradimesionata’ e che ‘le persone pensano di avere un ruolo nel proprio passato, ma che sono anche libere dalle fatiche della colpa … si immagina cosa significa per qualcuna come me sognare il lusso di un passato pulito?’.
Tra un alternarsi di fisicità e memoria, di sacro e profano, di uomini e donne, di mamme e padri e di zii e zie e di gatti che abbaiano, si svela la solitudine e l’oppressione di chi vuole sfidare la società moderna e le convenzioni sociali, la cosiddetta politically correct.
Da una parte il desiderio di riparare ai fatti della storia con le nostre più intime scelte personali, dall’altra la necessità di dover sempre recitare una parte “Quando ero più giovane ho sempre pensato che l’unico modo per superare veramente l’Olocausto sarebbe stato amare un ebreo”.
Una bella voce femminile, una forte critica verso la sua identità nazionale, un libro pieno di segreti e traumi, suoi e di K, della Germania e del popolo ebreo, in cui i popoli desiderano segretamente le guerre per poter torturare poi i propri discendenti e per trovare il pretesto di ‘poter fare nuovamente sesso vero e proprio e non quella versione addomesticata che la libertà e la pace possono offrire’.
Lo si legge in apnea e si finisce per pensare che ‘sia ciò che la solitudine fa alle persone’, far dimenticare ‘come esprimere i loro desideri’.
Recensione di Nunzia Cappucci
UN CA**O EBREO – katharina Volckmer
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